L’azzardo europeo dei regimi di Polonia e Ungheria
Articolo pubblicato su MeridianoiItalia.tv

Chiunque abbia frequentato i due Paesi e si sia correttamente informato, può agevolmente constatare come i valori – e le regole – posti a fondamento dell’Unione Europea siano regolarmente e grandemente violati; furbizia e corruzione, appalti pubblici non trasparenti, controllo dei mezzi d’informazione, giudici sottoposti all’esecutivo, limitazioni alla libertà di espressione e all’insegnamento, repressione del dissenso e così continuando, sono le caratteristiche principali dei due Stati ex “cortina di ferro”.

Ora nel momento in cui l’Unione e soprattutto il suo Parlamento decidono finalmente di condizionare i trasferimenti economici al rispetto dei comuni principii dello “stato di diritto” i governi dei due Paesi giocano d’azzardo, proclamando di “non accettare indebite intromissioni negli affari interni” e ponendo il veto al bilancio pluriennale, di cui sono tra l’altro tra i principali beneficiari.

La considerazione più elementare è che i due governi non hanno ben capito che nell’Unione ci si sta prendendo si, ma anche cedendo…  e soprattutto rispettando la cornice valoriale e giuridica comune entro cui tutti gli stati membri per espressa e libera volontà si sono collocati.

Questa situazione non del tutto inattesa, anche alla luce delle costanti comportamentali dei due regimi, deve portaci a compiere qualche riflessione su quelli che sono stati i tempi e le modalità dell’allargamento dell’Unione.

Il 9 novembre 1989 è stato vissuto realmente nell’Occidente come la fine di un modello, quello comunista, che crollava sotto le proprie insanabili contraddizioni e brutalità e come il successo delle economie di mercato su quelle socialiste-pianificate (per tutti: Fukuyama per cui si trattò del successo definitivo del capitalismo e della democrazia); quel giorno ha liberato (nel senso letterale del termine), con la caduta della “cortina di ferro”, milioni di persone ed ha rappresentato l’avvio di un nuovo percorso per quella Europa nata con il trattato di Roma.

Questo cammino sin dall’inizio è stato caratterizzato da enormi incertezze politiche, basti pensare alle posizioni italiana, francese e soprattutto britannica, che esprimevano un favore al mantenimento di fatto del precedente assetto geopolitico e della sua massima rappresentazione, il Patto di Varsavia del 1955.

L’unificazione tedesca, realizzata grazie alla determinazione di Helmut Kohl, ha indicato invece un percorso diverso convincendo gli altri paesi ad avviare un processo di forte integrazione europea in un contenitore istituzionale robusto ove collocare la nuova Germania e il trattato di Maastricht e l’unificazione monetaria sarebbero stati individuati come gli strumenti più efficaci. 

La transizione, determinata da questi straordinari eventi, verso un nuovo assetto dell’Europa, ha tuttavia prodotto una struttura istituzionale discutibile e contraddittoria; basti pensare alle riflessioni di alcuni tra i più attenti studiosi che seppure da posizioni distanti concordano nell’evidenziarne le criticità. Ralf Dahrendorf, “un europeo scettico a favore dell’Europa unita” evidenziava la nascita di un super Stato, fortemente connotato dal dominio di una ristretta élite cosmopolita e di una esorbitante burocrazia, distante dalle esigenze dei cittadini europei, così come esprimeva diffidenza nei confronti del processo di integrazione dei paesi dell’ex area di influenza sovietica e nei confronti della moneta unica:  “L’Europa non può essere che uno spazio comune di diverse appartenenze etniche, religiose e culturali: voltare le spalle all’idea di questo spazio comunque significa inevitabilmente l’intolleranza all’interno e l’ostilità all’esterno…abbiamo bisogno dell’Europa, ma di un’Europa della quale poter essere fieri…altrimenti diverrà prima una questione infelice e fonte di divisioni, poi darà origine a nuovi conflitti sempre più intricati e infine perderà ogni rilevanza per essere soppiantata da altre forze assai meno auspicabili”. E naturalmente il suo modello si identificava in quello della Confederazione di Stati.

Anche Dominique Wolton sottolineava lo snaturamento degli ideali dei fondatori dell’idea europeista da parte della struttura euro-burocratica attraverso una sostanziale delegittimazione del sistema democratico che, al contrario avrebbe potuto realizzarsi più compiutamente in un modello federalista, riportandoci inevitabilmente a Jürgen Habermas ed alla sua vasta e condivisibile analisi della democrazia e dello stato di diritto. 

Habermas si interroga su “quali forme debba assumere il processo democratico per oltrepassare i limiti dello Stato nazionale” per poi pervenire alla elaborazione del suo “patriottismo costituzionale” da innervarsi in una Costituzione Europea: “L’Unione Europea non deve più sussistere soltanto sulla base dei trattati internazionali, bensì concepire sé stessa come un ordine politico che i cittadini dell’Europa si diano da sé stessi.” E, nel lento e contraddittorio percorso di edificazione europea, dopo l’approvazione a Nizza nel 2000 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sottolinea come: “Siamo dunque già sulla strada di trasformare l’Unione Europea dei trattati in un’Unione Europea legittimata da una Costituzione.

Inoltre, la carta dei diritti fondamentali ha un contenuto sociale più forte che non i trattati finora in vigore. E questo, sebbene i diritti fondamentali per il momento siano stati soltanto “proclamati”, non mancherà di esercitare i suoi effetti anche sulla giurisdizione della Corte Europea di Giustizia, la quale finora si è orientata in misura crescente verso i diritti di libertà economica.”

E quindi la costante affermazione che: “il disegno dell’Europa federale è l’unico realistico” (…) “Una Federazione Europea, che non consista solo di Stati, ma che assuma essa stessa alcune caratteristiche di uno Stato – che, ad esempio, mediante una propria riscossione delle imposte, diventi finanziariamente autonoma – è una conseguenza dell’unione economica, voluta a livello politico ed ormai completata. Dopo la rinuncia alla sovranità monetaria e l’istituzione di un mercato comune, gli Stati membri europei possono rinunciare ad una loro ulteriore unione politica solo se vogliono votarsi a lungo termine al paradigma neoliberista del regime economico che oggi regna in tutto il mondo. Oggi osserviamo l’abdicazione della politica nei confronti degli imperativi di un’economia transnazionale lasciata libera di fare il suo corso. Ma questo è il risultato di decisioni politiche, e dunque non si tratta di un processo che non possa essere capovolto. Fino a questo momento, la politica gestita democraticamente è l’unico mezzo per ottenere un’azione consapevole da parte dei cittadini nei confronti del loro destino collettivo.” 

L’Europa ha fatto consistenti passi in avanti anche se il processo di unificazione ha inevitabilmente un percorso non lineare caratterizzato da stop and go ed ha ritardato di qualche decennio un assetto che con lentezza esasperante si va nonostante tutto affermando. La consapevolezza della necessità di parlare con una unica voce nello scenario politico ed economico internazionale, caratterizzato da nuovi e forti protagonisti, è ormai un dato acquisito ma è contestualmente e finalmente necessario superare quell’Unione basata sulla sola comunanza di interessi economici per strutturarla in una comunità di destino democratico a partire dalla piena affermazione dei principii non negoziabili dello stato di diritto.